Parlare di Ezio Frigerio non è semplice. Ci sono molte cose che andrebbero dette su di lui in primo luogo per l’importanza che la sua figura ha rappresentato per l’intero mondo del teatro, ma anche perché molti aspetti del suo lavoro, del processo creativo, delle innovazioni estetiche e tecniche che ha innestato nell’immaginario di chi fa questo mestiere e nella concretezza di chi trasforma in realtà le intuizioni poetiche, non sono ancora state ben inquadrate dentro lo scenario generale dell’evoluzione del linguaggio scenico della seconda metà del novecento. D’altra parte, Ezio non ha mai avuto la vocazione a riflettere sul suo passato per cercare di razionalizzare il suo agire in un pensiero teorico che potesse essere condiviso, e non ci ha lasciato molti documenti in tal senso. Ezio era argento vivo, viveva con insofferenza il tempo e tentava di annullarlo con l’azione immediata. Odiava la noia, nella sua visione del mondo l’immobilità non era contemplata, e questo rendeva la sua vita, e tutto ciò che faceva molto intenso. Viveva in una perenne e inquieta tensione dinamica tesa alla conquista di qualcosa che si trovava sempre nel futuro: una visione.
Ezio cercava “semplicemente” la materializzazione di un’illusione, un tema dibattuto da millenni quello del rapporto tra realtà e illusione, e come ogni grande artista aveva il potere di dare forma nell’universo, sensibile a qualcosa che la maggior parte di noi esseri umani non riuscirebbe a immaginare, e lo faceva trasfigurando l’oggetto, dandogli un plus valore, caricandolo di potenza visiva ed evocativa al punto di riuscire a creare sempre quello stupore che trasforma l’esperienza in emozione, qualsiasi cosa facesse dentro o fuori dal suo naturale campo di gioco, il teatro, aveva questa intenzione. Ne ebbi dimostrazione fin dal nostro primo incontro in Turchia nella sua residenza estiva sul Mar Egeo nei luoghi delle antiche colonie greche vicino alla città Pergamo. Dopo un viaggio di qualche ora su un pullman che da lzmir mi portò nella località di Dikili trovai il Maestro in tunica di lino e una calotta in maglia di cotone che mi attendeva alla fermata dell’autobus, mi fece salire su una vecchia Fiat familiare con tutti i finestrini abbassati e in una nuvola di polvere partimmo alla volta di casa. Percorso qualche chilometro, nell’intenso color ocra e verde della macchia mediterranea, ci inoltrammo in un uliveto e in un punto dove si faceva più folto si fermò e disse: “siamo arrivati”. Scese dall’auto si diresse verso un piccolo cancello in ferro battuto dentro una fitta siepe e sparì… io lo segui a distanza di qualche decina di metri chiedendomi dove fosse la casa… timidamente attraversai la siepe e rimasi immobile per alcuni istanti travolto e frastornato da mille sensazioni. Pensai di essere arrivato in paradiso: davanti a me il corpo centrale della casa, sotto una grande cupola bianca lo spazio completamente aperto dialogava con il giardino attraverso sei grandi cancelli di legno intagliato. Oltre la fitta trina dei decori verde salvia si stagliava la linea netta dell’orizzonte del mare che sembrava il perfetto prolungamento dei rivestimenti in ceramica dei muri interni del salone. In un battere di ciglia nella mia mente si riversarono immagini, rimandi, sensazioni, umori… poi la leggera brezza, il canto delle cicale, il profumo di mirto e rosmarino… qualcosa emergeva dai ricordi in stretta relazione con ciò che stavo percependo, ma non saprei spiegare razionalmente quel sentire misto a nostalgia e gioia, era una strana euforia per aver ritrovato qualcosa di familiare ma di cui non avevo più memoria.
Iniziai a focalizzare i dettagli dei colonnati, gli archi islamici, la geometria dei decori blu, bianchi e turchesi mescolati a fluide composizioni di fiori delle ceramiche kutahya che incastonavano una tipica fontana ottomana, le linee curve dei vasi e delle brocche in argento finemente cesellate da antiche sapienti mani, poi l’improvvisa apparizione di una composizione piramidale di frutta in legno smaltata, due paralumi coperti da seta avorio semitrasparente completamente ricamata in ambra e oro. Tutto galleggiava su un pavimento in pietra al centro del quale un grande kilim definiva il perimetro di un’agorà intima e accogliente. Dopo qualche istante, forse minuti, non saprei dire, iniziai a muovermi lentamente, continuai l’esplorazione scoprendo prospettive nuove e ancora sorprendenti, lo spazio si espandeva, quel caleidoscopio continuava a muoversi svelando uno strato dopo l’altro, le infinite velature di un mondo concreto che potevo toccare e riconoscere ma intrinsecamente connesso alla mia immaginazione e, chissà per quale via, anche ai miei ricordi.
Ezio era sparito e mi fece oltrepassare quella soglia da solo, senza spiegazioni o commenti, era profondamente convinto, come lo sono io, che l’arte non ha bisogno di didascalie, l’incontro con essa è un’esperienza che coinvolge i sensi e la mente ed è completamente autonoma nell’ esprimere se stessa. lo in quel momento non ero a teatro o in un museo stavo semplicemente gestendo un evento della mia vita ordinaria: concluso un viaggio stavo entrando in un’abitazione per sistemare i miei bagagli ma in quell’esatto momento stavo anche vivendo un’esperienza intima ed estetica straordinaria… quello era il mondo di Ezio.
Quando elaborava uno spazio scenico aveva il medesimo approccio, nessuna distinzione tra arte e vita, lui viveva secondo le sue regole, sempre, e creava intorno a sé l’esatto scenario in cui tali regole potessero funzionare senza impedimenti lasciando che le persone intorno a lui, o il pubblico sperimentassero lo stupore senza didascalie, credeva fino in fondo nell’illusione al punto che essa diventava più vera di ciò che noi definiamo realtà, che forse altro non è che un’illusione condivisa.
Ezio giocava abilmente con questa ambiguità: era capace di apparizioni e sparizioni di mescolare attraverso un’intuizione infallibile una grande quantità di segni e di stili riconoscibili o indecifrabili in un impasto denso di significati. Il suo fare creativo era un immergersi nel magma, un atto per nulla concettuale, ma di grande concretezza nel plasmare la materia per trasfigurare lo spazio in pura poesia: che fosse ricoprire le superfici architettoniche con chicchi di riso e grano, di corrodere con acido e lanciafiamme lamine metalliche, stratificare con garze tinte a mano superfici di oggetti e arredi, consumare il legno con spazzole di ferro, patinare l’oro con mordenti scurissimi, rivestire colonnati e pavimenti con superfici nere specchianti, allontanare i piani prospettici con pareti di tulle di diversa tramatura, fare emergere i rilievi dal buio svelando con la luce solo i dettagli di un universo intero … Ezio giocava con la materia, la qualità delle superfici, la composizione degli spazi e le atmosfere per creare meraviglia, ma non quella superficiale dei sognatori inconsapevoli o quella incontaminata del bambino che vede tutto per la prima volta, piuttosto una meraviglia profonda, quella che emerge da una memoria atavica, da un senso di appartenenza all’esperienza umana universale senza vincoli culturali e spaziotemporali. La sensazione di riconoscere in ciò che creava qualcosa di intimamente personale, come se riaffiorasse dalla nostra memoria, rendeva le sue visioni potenti e credibili, a prescindere da qualsiasi invenzione e artificio vi fosse contenuto.
Il grande rigore, l’ossessione per le proporzioni perfette, la capacità di bilanciare i rapporti tra pieni e vuoti e il ritmo armonico della composizione, l’abilità nell’ usare i contrasti, le simmetrie, le asimmetrie, la calibratura della luce, erano qualità specifiche del suo lavoro ed erano ottenute attraverso un processo creativo molto sofferto, ma di grande libertà, senza limite all’inventiva, alla fine del quale riusciva sempre a condensare un risultato omogeneo, efficace e perfettamente coerente.
Ogni volta che affrontavamo un nuovo progetto la prima fase di elaborazione di un’idea per me era un’occasione preziosissima per osservare questo miracolo, era il momento in cui Ezio era più vulnerabile, il momento in cui le sue intuizioni dovevano essere protette da ogni intrusione esterna perché anche solo una parola sbagliata o uno sguardo disattento potevano farle svanire e risolversi in furiose scariche di rabbia. In questa prima fase del lavoro io dovevo annullarmi e cercare di essere semplicemente le sue mani, mi lasciavo condurre senza nessuna resistenza, agivo seguendo scrupolosamente le sue indicazioni che erano sempre precisissime, ma le traiettorie del suo pensiero rimanevano un mistero affascinante e imprevedibile. Si faceva e si rifaceva il lavoro più e più volte, si componeva e ricomponeva l’immagine, ma il criterio per le scelte non era mai dettato in primis da un’attinenza storico-filologica bensì dalla necessità e dall’urgenza espressiva che rendeva il percorso sorprendente, una continua scoperta ed io vedevo materializzarsi nelle mie mani il suo pensiero. Quelli sono stati i momenti più intensi e determinanti nella mia esperienza accanto al Maestro, mi ritrovavo materialmente a realizzare qualcosa che da solo non ero in grado di concepire e a posteriori posso dire che quella pratica ha allargato infinitamente le mie potenzialità creative.
Il suo era un carattere forte non privo di asperità, con qualche sfumatura di timidezza e una determinazione senza mezzi termini. Era mosso sempre da un’intuizione precisa, una visione, e quel pensiero limpido guidava la sua ricerca inquieta, senza sosta, finché non si materializzava davanti ai suoi occhi l’esatta forma coincidente con quella visione e il fuoco si placava … tutta la sua vita, il modo di relazionarsi, i suoi incredibili viaggi, i progetti di lavoro sembravano seguire invariabilmente questo schema, ma forse quel momento di pace era quello che cercava veramente: l’approdo sereno in cui fermarsi per un solo istante.
Domenico Franchi